Come sempre i colleghi di Fisioscience hanno dato un contributo utile ed interessante in merito all’importanza della cura della relazione attraverso una buona comunicazione verbale, corporea e prossemica, per rafforzare l’alleanza terapeutica e migliorare la compliace del paziente. Tramite una sintesi di 11 punti evidence based che rende l’argomento fruibile a tutti, stimolano ad una riflessione sulle strategie di base per costruire la relazione stessa. Si tratta di un punto di partenza per un buon approccio alla complessità del paziente, argomento molto vasto poi da ampliare con la cura degli spazi, di tutti i fattori contestuali e con la comprensione dei meccanismi bidirezionali che sottostanno alla relazione umana, in particolare nello specifico di quella terapeutica.
Si tratta di “attenzioni” più immediate ed intuitive per chi ha una determinata attitudine relazionale e più ostiche per chi è meno portato alla cura della relazione. Sono tuttavia consigli certamente fruibili per la maggior parte dei colleghi, praticabili, “allenabili” e migliorabili nel tempo, grazie all’esperienza pratica, al confronto con i più esperti e agli studi emergenti in merito alla tematica dei fattori contestuali all’interno della relazione terapeutica.
Senza dubbio si troverà avvantaggiato chi adotta queste “premure” perché sinceramente tiene alla salute della persona-paziente, piuttosto che chi le impara come “strategie” atte a rafforzare l’aderenza terapeutica (e con essa la sua efficacia), all’interno di un setting dove i fattori contestuali oggi ampiamente indagati dalla letteratura emergente, giocano un ruolo importante. Questa -a mio avviso- la vera differenza tra Professionista Sanitario e professionista sanitario.
Al tempo del Coronavirus, è forse utile aggiungere un’ulteriore riflessione che ci permetta di andare oltre, per costruire un futuro solido, basato sulla flessibilità (scusate l’apparente ossimoro!): la relazione terapeutica è molto altro e va ben oltre queste regole comportamentali, proprie di una buona relazione. Come curare la relazione terapeutica nel frangente della distanza sociale e dell’isolamento da Coronavirus?
Senza dubbio chi ha saputo costruire relazioni vere, forti ed affidabili potrà permettersi di gestire, temporaneamente, le sedute a distanza, in modo da non interrompere i piani terapeutici, per poi riprenderli gradualmente con tutti (o quasi). Ma come, per quanto tempo e soprattutto cosa sarebbe se queste condizioni dovessero prolungarsi oltremodo nel tempo?
Questi quesiti non mirano a spaventare o preoccupare immaginando un futuro negativo completamente differente dal passato ma, al contrario, a cogliere questa fase di rallentamento dei ritmi per analizzare e riflettere. Uno sprone ad occuparci oggi dei nostri limiti come individui ma ancor più come categoria, al fine di essere migliori domani, adeguati ad un futuro prossimo senza dubbio positivo, ma inevitabilmente caratterizzato dalle cicatrici di un “trauma collettivo” (soprattutto nelle regioni più colpite).
E’ importante che -come categoria- si maturi tutti assieme nella direzione della “complessità”, dove l’essere umano-paziente è accolto nella sospensione del giudizio, nella consapevolezza dei limiti reciproci, nel rispetto dei ruoli, nella comprensione del contesto bio-fisico, psico-attitudinale, socio-culturale ed ambientale. Questo da un lato per elaborare piani basati sulle evidenze ma individualizzati e dall’altro per non rimanere schiacciati da una visione meccanicista e semplicista che, seppur facilitante, nella sintesi delle “ricette” e dei protocolli, vincola l’intero processo di crescita personale, professionale e di interdisciplinarietà, fondamentali per il prossimo futuro.
Mi spiego meglio. In ambito fisioterapico possiamo individuare diversi momenti che caratterizzano, in modo più o meno strutturato e consapevole, il nostro operato, dall’accoglienza al congedo del paziente. L’iter si divide in diversi step: 1) valutazione e rivalutazione con raccolta dati, test ed approfondimenti 2) ragionamento clinico ed elaborazione del piano terapeutico a breve, medio e lungo termine 3) comunicazione, condivisione e revisione del piano con tutto il team, di cui il paziente è parte integrante, con i propri obiettivi e preferenze 4) realizzazione del piano e suo continuo adattamento e revisione, sulla base delle risposte del corpo 5) coaching e follow up. Allo stesso modo ogni incontro è costituito da vari momenti: accoglienza; verifica dello stato dell’arte, della compliance, del tono dell’umore, dei risultati; informazione, educazione e sensibilizzazione; trattamento con terapia manuale o altre tecniche fisioterapiche; individuazione dell’esercizio terapeutico più adeguato con relativo insegnamento, prova e verifica della comprensione e della corretta esecuzione; conferma/revisione della pianificazione futura e congedo. La proporzione di queste componenti varia nel tempo a favore dello svezzamento e del recupero delle autonomie. Durante tutte queste fasi il terapista deve essere presente a sé ed alla relazione su più piani: operatore da un lato ed, al contempo, osservatore della relazione con capacità critica e meta-analitica.
Quanti di noi sono preparati ed allenati a lavorare in questo modo? Quanti, oltre noi, sanno che la fisioterapia è tutto ciò?
Se fossimo in tanti, con un core-curricula omogeneo, ben rappresentati e valorizzati, probabilmente la figura del fisioterapista sarebbe ad oggi culturalmente differente, a partire dalla percezione che noi stessi abbiamo della nostra professione e del valore che attribuiamo al nostro operato, passando per quella dei colleghi sanitari che spesso non sanno neppure in cosa esso consista, per finire al vissuto della società intera che ci vede ancora come “manovali” che massaggiano muscoli e muovono meccanicamente articolazioni. Ancora troppo grande la fetta di popolazione che non sa, forse perché non ha sperimentato o forse perché – purtroppo – ha sperimentato altro e non ciò che oggi è (o dovrebbe essere) la Fisioterapia contemporanea.
A cosa è dovuto questo immaginario “anacronistico” del nostro operato, ancora così strettamente associato alle nostre mani (certamente importanti) ed alle nostre manovre, ma ancora troppo poco al sapere professionale, alle competenze, alla ratio che guida scelte ed azioni (delle stesse nostre mani) ed al ruolo che abbiamo come educatori in un percorso dinamico di recupero della funzione, delle autonomie e del benessere bio-psico-socio-culturale? Sono gli altri che non ci vedono, noi che non ci sappiamo rappresentare o noi che non ci siamo ancora?
Qualsiasi sia la risposta, riflettiamo su questi quesiti ed uniamoci per promuovere un cambiamento di valore con azioni concrete, prima che la società ci sostituisca con figure più capaci di elasticità, duttilità e rappresentanza.
Ringrazio i colleghi di Fisioscience che, come spesso accade, mi offrono spunti di riflessione e opportunità di approfondimento tematico che raramente riesco a condividere per questioni di tempo.